“Io sono un frutto amaro che cade sulla terra.
Così io rimango prigioniero del tempo.
Oh primavera di libertà! La tua grazia, che cosa altro
Potrebbe rendere dolce questo frutto amaro?….”, così recitano alcuni versi di Khalilullah Khalili che ora potrebbero trovare una risposta tra le mura del Giardino delle donne. Un posto dove le afghane possono sentirsi anche solo per qualche ora completamente libere, un luogo di assoluta tranquillità interdetto agli uomini, sospeso tra due mondi, quello reale che aspetta fuori l’alto muro e quello ovattato, fresco e profumato del giardino rinato grazie ad una stretta collaborazione tra l’Italia e gli Stati Uniti che, hanno lavorato insieme in Afghanistan per costruire lo Sharara Garden. Qui in questa parentesi tutta al femminile le donne di Kabul gestiscono alcuni negozi, passeggiano, chiacchierano, seguono corsi di formazione professionale, come quelli avviati nel 2004 dal progetto italiano di Formazione Professionale e Imprenditoria Femminile. Un programma grazie al quale un gruppo di donne è riuscita a ritagliarsi delle opportunità imparando mestieri che in questa terra sono da sempre appannaggio degli uomini, come il taglio e la lavorazione delle gemme, l’assemblaggio di apparecchi solari e fotovoltaici, la riparazione di strumenti elettronici, la ristorazione e il catering. La voce popolare narra che i tre ettari di terreno circondato da alte mura, nel quartiere di Shahrara, a Kabul, appartenesse alle donne fin dai tempi remotissimi di Babur il Conquistatore, vissuto alla fine del millequattrocento. In realtà il giardino nacque negli anni Quaranta grazie a Zahir Shah, l’ultimo re afgano e per molto tempo fu una vera e propria istituzione. Oggi può tornare ad esserlo e le donne tornare a passeggiare tra i mandorli in fiore.